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  LE BUGIE DI PADRE PIO

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filippo

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MessaggioTitolo: LE BUGIE DI PADRE PIO              LE BUGIE DI PADRE PIO EmptyVen Ago 13, 2010 11:25 pm

LA LIBRO DELLO STORICO SERGIO LUZZATTO APRE NUOVI
DUBBI SUL FRATE DI PIETRALCINA

Padre Pio, il giallo delle stigmate
Un farmacista: «Nel 1919 fece acquistare dell'acido fenico,
sostanza adatta per procurarsi piaghe alle mani»
I l cerchio intorno a padre Pio aveva cominciato a stringersi fra giugno
e luglio del 1920: poco dopo che era pervenuta al Sant'Uffizio
la lettera- perizia di padre Gemelli sull'«uomo a ristretto campo di coscienza»,
«soggetto malato», mistico da clinica psichiatrica.

Giurate nelle mani del vescovo di Foggia, monsignor Salvatore Bella,
e da questi inoltrate, le testimonianze di due buoni cristiani della diocesi
pugliese avevano proiettato sul corpo dolorante del cappuccino un'ombra
sinistra. Più che profumo di mammole o di violette, odore di santità,
dalla cella di padre Pio erano sembrati sprigionarsi effluvi di acidi
e di veleni, odore di impostura.

Il primo documento portava in calce la firma del dottor Valentini Vista,
che a Foggia era titolare di una farmacia nella centralissima piazza Lanza.
Al vescovo, il professionista aveva riferito anzitutto le circostanze originarie
del suo interesse per padre Pio. La tragica morte del fratello, occorsa il 28
settembre 1918 (per effetto dell'epidemia di spagnola, possiamo facilmente
ipotizzare). La speranza che il frate cappuccino, proprio in quei giorni trafitto
dalle stigmate, potesse intercedere per l'anima del defunto. (...)

Il dottor Valentini Vista era poi venuto al dunque. Nella tarda estate del '19,
il pellegrinaggio a San Giovanni era stato compiuto da una sua cugina,
la ventottenne Maria De Vito: «Giovane molto buona, brava e religiosa»,
lei stessa proprietaria di una farmacia. La donna si era trattenuta nel
Gargano per un mese, condividendo con altre devote il quotidiano train
de vie del santo vivo.

Il problema si era presentato al rientro in città della signorina De Vito:
«Quando ella tornò a Foggia mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese
a nome di lui e in stretto segreto dell'acido fenico puro dicendomi che
serviva per Padre Pio, e mi presentò una bottiglietta della capacità
di un cento grammi, bottiglietta datale da Padre Pio stesso, sulla quale era
appiccicato un bollino col segno del veleno (cioè il teschietto di morte)
e la quale bottiglietta io avrei dovuto riempire di acido fenico puro che,
come si sa, è un veleno e brucia e caustica enormemente allorquando
lo si adopera integralmente. A tale richiesta io pensai che quell'acido fenico
adoperato così puro potesse servire a Padre Pio per procurarsi o irritarsi
quelle piaghette alle mani».

A Foggia, voci sul ritrovamento di acido fenico nella cella di padre Pio
avevano circolato già nella primavera di quel 1919, inducendo il professor
Morrica a pubblicare sul Mattino di Napoli i propri dubbi di scienziato intorno
alle presunte stigmate del cappuccino. Non fosse che per questo,
il dottor Valentini Vista era rimasto particolarmente colpito dalla richiesta
di acido fenico puro che il frate aveva affidato alla confidenza di Maria De Vito.

Tuttavia, «trattandosi di Padre Pio», egli si era persuaso che la richiesta
avesse motivazioni innocenti, e aveva consegnato alla cugina la bottiglia
con l'acido. Ma la perplessità del farmacista era divenuta sospetto poche
settimane dopo, quando il cappuccino di San Giovanni aveva trasmesso
alla donna – di nuovo, sotto consegna del silenzio – una seconda richiesta:
quattro grammi di veratrina.

Rivolgendosi a monsignor Bella, Valentini Vista illustrò la composizione
chimica di quest'ultimo prodotto e insistette sul suo carattere fortemente
caustico. «La veratrina è tale veleno che solo il medico può e deve vedere
se sia il caso di prescriverla», spiegò il farmacista. A scopi terapeutici,
la posologia indicata per la veratrina era compresa fra uno e cinque
milligrammi per dose, sotto forma di pillole o mescolata a sciroppo.
«Si parla dunque di milligrammi! La richiesta di Padre Pio fu invece
di quattro grammi! ».

E tale «quantità enorme trattandosi di un veleno»,
il frate aveva domandato «senza la giustificazione della ricetta medica relativa»,
e «con tanta segretezza»... A quel punto, Valentini Vista aveva ritenuto
di dover condividere i propri dubbi con la cugina Maria, raccomandandole
di non dare più seguito a qualsivoglia sollecitazione farmacologica
di padre Pio. Durante il successivo anno e mezzo, il professionista non
aveva comunicato a nessun altro il sospetto grave, gravissimo, che il frate
si servisse dell'una o dell'altra sostanza irritante «per procurarsi o rendere
più appariscenti le stigmate alle mani». Ma quando aveva avuto notizia
dell'imminente trasferimento di monsignor Bella, destinato alla diocesi
di Acireale, «per scrupolo di coscienza» e nell'«interesse della Chiesa»
il farmacista si era deciso a riferirgli l'accaduto.

La seconda testimonianza fu giurata nelle mani del vescovo dalla cugina
del dottor Valentini Vista, e risultò del tutto coerente con la prima.
La signorina De Vito confermò di avere trascorso un mese intero
a San Giovanni Rotondo, nell'estate del '19. Alla vigilia della sua partenza,
padre Pio l'aveva chiamata «in disparte» e le aveva parlato
«con tutta segretezza», «imponendo lo stesso segreto a me in relazione
anche agli stessi frati suoi confratelli del convento».

Il cappuccino aveva consegnato a Maria una boccetta vuota,
pregando di farla riempire con acido fenico puro e di rimandargliela indietro
«a mezzo dello chauffeur che prestava servizio nell'autocarro passeggieri
da Foggia a S. Giovanni».
Quanto all'uso cui l'acido era destinato, padre Pio aveva detto che gli
serviva «per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli
praticava ai novizi di cui era maestro ». La richiesta dei quattro grammi
di veratrina le era giunta circa un mese dopo, per il tramite d'una penitente
di ritorno da San Giovanni. Maria De Vito si era consultata con Valentini Vista,
che le aveva suggerito di non mandare più nulla a padre Pio.
E che le aveva raccomandato di non parlarne con nessuno, «potendo
il nostro sospetto essere temerario ».

Temerario, il sospetto del bravo farmacista e della devota sua cugina?
Non sembrò giudicarlo tale il vescovo di Foggia, che pensò bene di inoltrare
al Sant'Uffizio le deposizioni di entrambi. D'altronde, un po' tutte le gerarchie
ecclesiastiche locali si mostravano scettiche sulla fama di santità di padre Pio.
Se il ministro della provincia cappuccina, padre Pietro da Ischitella,
metteva in guardia il ministro generale dal «fanatismo » e dall'«affarismo»
dei sangiovannesi, l'arcivescovo di Manfredonia,
monsignor Pasquale Gagliardi, rappresentava come totalmente fuori
controllo la situazione della vita religiosa a San Giovanni Rotondo.

Da subito nella storia di padre Pio, i detrattori impiegarono quali capi
d'accusa quelli che erano stati per secoli i due luoghi comuni di ogni
polemica contro la falsa santità: il sesso e il lucro. E per quarant'anni dopo
il 1920, il celestiale profumo intorno alla cella e al corpo di padre
Pio riuscirà puzzo di zolfo al naso di quanti insisteranno sulle ricadute
economiche o almanaccheranno sui risvolti carnali della sua esperienza
carismatica. Ma nell'immediato, a fronte delle deposizioni di Maria De Vito
e del dottor Valentini Vista, soprattutto urgente da chiarire dovette sembrare
al Sant'Uffizio la questione delle stigmate.

Tanto più che il vescovo di Foggia,
inoltrando a Roma le due testimonianze giurate, aveva accluso alla
corrispondenza un documento che lo storico del ventunesimo secolo non
riesce a maneggiare – nell'archivio vaticano della Congregazione per
la Dottrina della Fede – senza una punta d'emozione: il foglio sul quale padre
Pio, forse timoroso di non poter comunicare a tu per tu con la signorina
De Vito, aveva messo nero su bianco la richiesta di acido fenico.
Allo sguardo inquisitivo dei presuli del Sant'Uffizio, era questo lo smoking gun,
l'indizio lasciato dal piccolo chimico sul luogo del delitto. «Per Marietta De Vito,
S.P.M.», padre Pio aveva scritto sulla busta.

All'interno, un unico foglietto
autografo, letterina molto più stringata di quelle che il cappuccino soleva
scrivere alle sue figlie spirituali: «Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre
e ti benedica! Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da duecento
a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare.
Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle
Fiorentino. Perdona il disturbo».

Se davvero padre Pio necessitava di acido fenico per disinfettare
le siringhe con cui faceva iniezioni ai novizi, perché mai procedeva
in maniera così obliqua, rinunciando a chiedere una semplice ricetta
al medico dei cappuccini, trasmettendo l'ordine in segreto alla cugina
di un farmacista amico, e coinvolgendo nell'affaire l'autista del servizio
pullman tra Foggia e San Giovanni Rotondo?

Ce n'era abbastanza per
incuriosire un Sant'Uffizio che possiamo immaginare già sospettoso dopo
avere messo agli atti la perizia di padre Gemelli. Di sicuro, i prelati della
Suprema Congregazione non dubitarono dell'attendibilità delle testimonianze
del dottor Valentini Vista e della signorina De Vito, così evidentemente
suffragate dall'autografo di padre Pio. Agli atti del Sant'Uffizio figurava
anche la trascrizione di una seconda lettera autografa del cappuccino
a Maria De Vito, il cui poscritto corrispondeva esattamente al tenore
della deposizione di quest'ultima: «Avrei bisogno di un 4 grammi di
veratrina. Ti sarei molto grato, se me la procurassi costì, e me la
mandassi con sollecitudine».
Sergio Luzzatto
24 ottobre 2007
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